
Siamo nel 1944, la seconda Guerra Mondiale sembrava infinita. Una guerra iniziata nella lontana Europa, un altro mondo. Le fiamme di quella guerra si erano fatte strada dall’Occidente fino al profondo Oriente, in Giappone. I soldati dell’esercito giapponese continuavano a combattere con onore, portando avanti i valori che i loro padri gli avevano insegnato. Forte di questi insegnamenti e con fede nei principi di dovere verso la sua amata patria, un giovane giapponese di nome Hiro Onoda, portò avanti la sua battaglia per 30 anni, senza mai indietreggiare, senza mai dubitare, senza mai arrendersi.
Un Samurai non si arrende: un Samurai o vince o muore.
Il piccolo samurai
Da bambino, nel piccolo villaggio di Kamekawa nella provincia di Wakayama, dove è nato e cresciuto, Hiro Onoda non amava la scuola. Non gli piaceva studiare, giocare, non sopportava oziare. Lui amava l’azione, voleva mettersi alla prova, era già un combattente. A diciassette anni, dopo la scuola, era sempre nel dojo (la palestra di quartiere) ad allenarsi con la sua spada di legno nell’antica arte giapponese del kendo, l’arte della spada. Ogni giorno, fino allo sfinimento, si allenava per migliorare, per diventare il più forte, per temprare sé stesso. Si sentiva in trappola, forse, Hiro Onoda.
Voleva avere la possibilità di combattere per ciò che amava e per ciò in cui credeva.

La Seconda Guerra Mondiale
La sua occasione arriva nel 1941, quando scoppia la guerra tra Giappone e Stati Uniti, e l’Esercito dell’Imperatore ha bisogno di giovani coraggiosi e forti, pronti a combattere per la propria patria. Hiro Onoda può finalmente dimostrare il proprio valore, è onorato di far parte del grande Esercito Imperiale e tutto ciò che desidera è eseguire al meglio i suoi ordini ed essere così parte delle vittorie della sua nazione. Si arruola ed inizia il duro addestramento nella scuola militare di Nakano, dove in poco tempo diviene un membro della classe di comando Futamata Bunkō e viene addestrato come guerrigliero dallo spirito incrollabile, soldati ligi al dovere, pronti a combattere nel territorio nemico. Il valore più importante, per loro, era di rimanere vivi per poter continuare la loro guerriglia, senza paura, senza fermarsi, a qualunque costo.
Ma questi sentimenti Hiro Onoda li sentiva già suoi, erano insiti nella sua anima da sempre.
Il saluto della madre
Passano gli anni, siamo nel 1944: Hiro Onoda ha 23 anni, è divenuto Secondo Luogotente e deve partire per l’isola di Lubang, nel nord delle Filippine, dove la battaglia infuria selvaggia come la foresta tropicale. Prima di partire, il giovane Hiro parla con sua madre un’ultima volta. Anche lei una donna dura, severa, d’altri tempi, ben cosciente di cosa fosse il dovere e l’onore. Suo figlio sta per partire, probabilmente non lo vedrà mai più, ma lei non versa una lacrima. Gli dona una spada, una tantō, la lama corta che gli antichi Samurai portavano sempre con loro e che aveva un unico scopo. “Se dovessero catturarti, usala per toglierti la vita”, queste le ultime parole che rivolse a suo figlio. Il 26 Dicembre di quello stesso anno, Hiro Onoda parte per Lubang.
La battaglia di Hiro Onoda
Giunto a Lubang, la sua missione era di prendere il comando delle guarnigioni lì presenti e bloccare l’arrivo delle nuove truppe americane e dei loro alleati nelle Filippine. Il piano era di distruggere il punto di attracco delle navi nemiche nel porto e le piste di atterraggio dei loro aerei militari. Aveva ricevuto degli ordini diretti e precisi: fermare l’avanzata americana, a tutti i costi, senza possibilità di fallimento o resa. La sconfitta non era contemplata, gli era stato detto. Piuttosto che perdere o essere catturato, Hiro Onoda sarebbe dovuto morire: in questo ci credeva fermamente, ci aveva sempre creduto. Tuttavia, i suoi commilitoni di stanza a Lubang non erano mossi dal suo stesso fuoco. Sembravano non comprendere, come lui, l’importanza di queste azioni militari ai fini della guerra. Erano stanchi, affaticati, combattevano da troppo tempo. Così, il 28 Febbraio del 1945 il nemico era ormai alle porte. I soldati nemici erano tanti, troppi; superavano in numero e forza le guarnigioni giapponesi, che vennero schiacciate e decimate già dal primo attacco. I suoi commilitoni combattevano e morivano davanti ai suoi occhi. Altri non avevano più la forza di combattere e si arresero al nemico. In pochissimo tempo, quasi tutti i soldati giapponesi erano stati catturati o erano morti.
Tutti, tranne Hiro Onoda.
Nessuna resa
Hiroo Onoda non si arrese. E non lo fecero neanche altri tre soldati, gli unici che sopravvissero insieme a lui: Yuichi Akatsu, Shoichi Shimada e Kozuka Kinshichi. Quando ormai tutto sembrava perduto, Onoda decise di battere in ritirata, sopravvivere, per poter continuare a combattere, come gli era stato insegnato alla scuola militare. Così guidò i tre soldati in una fuga tra le montagne. È così che la guerra solitaria dei soldati giapponesi sopravvissuti iniziò. Sono solo in quattro, ma si organizzano per continuare la guerriglia contro le forze nemiche, per continuare bloccare la loro avanzata, con tutti i mezzi che hanno. Si nascondono nella giungla, tendono agguati, combattono in rapidi ed isolati scontri a fuoco mentre i giorni diventano settimane e le settimane, lentamente e faticosamente, mesi. Siamo ormai giunti nell’estate del 1945 e in patria la guerra era finita: il Giappone si era arreso dopo le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Onoda e i suoi questo però non lo sanno, per loro la guerra continua ad imperversare. Nell’Ottobre dello stesso anno trovano dei volantini spediti per loro dal governo giapponese. Recitano tutti la stessa frase: “La guerra è finita. Scendete dalle montagne.”. Hiro Onoda e i suoi commilitoni osservano questi volantini, riflettono, parlano. Alla fine però non credono alla veridicità di tale messaggio, non possono crederci. Doveva per forza essere un inganno perpetrato dalle forze nemiche per convincerli a uscire allo scoperto.
Perché mai gli starebbero ancora sparando, se la guerra fosse davvero finita?
Così, ancora una volta, Hiro Onoda non si arrese.
La sua guerra non è ancora finita
Continuarono la loro guerriglia, i mesi si succedevano uno uguale all’altro e si arrivò a dicembre 1945, 4 mesi dopo la fine della guerra. Nonostante qualcuno, soprattutto Akatsu, cominciasse a vacillare, Onoda non aveva nessuna intenzione di cedere terreno. Altri volantini caddero dal cielo, questa volta firmati dal Generale della Quattordicesima Armata, Tomoyuki Yamashita, loro diretto superiore. Li esortava ancora una volta ad uscire dalla macchia, a tornare a casa poiché la guerra era ormai finita. Akatsu sperò che il suo luogotentente credesse a queste parole, almeno stavolta, e li tirasse fuori da quell’inferno. Ma di nuovo Hiro Onoda, dopo lunghe riflessioni, non crede ad una parola: la guerra per lui non era ancora finita. Akatsu non poteva più sostenere quella guerriglia infinita, senza tregua. Così scappò, e si consegnò al nemico. Ora erano solo in tre. Ma non si arrendevano. Si erano organizzati e divisi i compiti, rubavano i vestiti dei locali per avere di che vestirsi, usavano la cenere per lavarsi, il grasso di vacca per curarsi le ferite, si sostentavano con frutta e vegetali rubati dai campi. I mesi divennero anni. Nel 1953, 8 anni dopo la fine della guerra, in uno degli scontri a fuoco, il Caporale Shimada perse la vita. Erano rimasti solo in due, ma non potevano fermarsi, non potevano smettere di combattere.
La solitudine di Hiro Onoda
Nel frattempo, in patria, dovevano trovare il modo di convincere Onoda ad accettare la realtà, ad arrendersi; fecero lanciare altre lettere, questa volta con le foto dei familiari dei combattenti, con le parole degli stessi che li esortavano e pregavano di tornare a casa. Ma di nuovo, Hiro Onoda non ci crede, legge l’inganno dietro alle parole dei suoi stessi familiari, addirittura nelle loro foto vede menzogna. Anche la lettera del padre, scritta in punto di morte, non scalfisce la sua motivazione d’acciaio. Dopo 19 anni, Kozuka Kinshichi venne ucciso durante una missione di guerriglia. Era il 19 Ottobre del 1972 e Hiro Onoda era rimasto solo. Ormai combatteva da tutta una vita, era sfinito, provato, ma non poteva e non doveva arrendersi. Passò due ulteriori anni a portare avanti la sua battaglia, riuscendo sempre a sopravvivere, a schivare i proiettili, ad alzarsi ancora ed ancora.
La verità
Siamo ormai nel 1974, 29 anni dopo la fine della guerra, quando succede qualcosa di inaspettato.
Un eccentrico esploratore giapponese, Norio Suzuki, sbarca nelle Filippine a caccia di avventure. Tra le sue aspirazioni vi era, in ordine: incontrare Hiro Onoda, un Panda e uno Yeti. Dei tre, incontra Onoda. I due parlano a lungo, Suzuki gli racconta ancora una volta quella verità a cui Hiro Onoda non voleva credere: la guerra era finita da anni, era il momento di tornare a casa. Lui, che fino ad allora aveva continuato la sua personale battaglia, non poteva non vedere la verità in ciò che quel giovane gli stava raccontando. I due diventarono amici, Onoda credeva alle sue parole. Ma non poteva finire tutto così: solo un suo superiore poteva liberarlo dal suo sacro impegno. Così, Norio Suzuki volò in Giappone e raccontò ciò che era successo. Per provare che stesse dicendo la verità, mostrò una foto scattata insieme ad Onoda. Era vero, dunque. Quindi il governo dovette acconsentire alle richieste di quel soldato che per 30 anni aveva combattuto per la propria nazione, come nessun altro aveva mai fatto. Il diretto superiore di Onoda, il Maggiore Yoshimi Taniguchi, divenuto libraio nel frattempo, venne mandato a Lubang per congedarlo, finalmente.

Hiro Onoda, finalmente, si arrese
E così fu, infine.
Hiro Onoda tornò a casa nel Marzo del 1974, dopo 30 anni di guerra solitaria e talvolta disperata, che lo avevano temprato, sfinito e reso ancora più duro nel suo credo e nei suoi principi. La guerra e la sconfitta avevano cambiato profondamente la sua patria e la sua cultura che, ormai, non sentiva più sua. Per lui non era rimasto più nulla, lì, tanto che passerà molto di ciò che restava della sua vita in Brasile, lontano.
Fu allora che, forse, per la prima volta nella sua vita, Hiro Onoda si arrese.






